3 settembre 2015
La stanchezza bussa sempre più forte. Lo diciamo sottovoce perché questa è anche una gara coi nostri limiti con in palio nient’altro se non una nuova, maggiore consapevolezza di noi stesse, dei nostri corpi quasi trentenni. Che non vuol dire niente ma vuol dire. Iniziamo a salire, sentiero invisibile e asfalto che dovrebbe condurre alla “stazione”. A un certo punto, un trivio di sterrati: uno sguardo e sappiamo che oggi tenteremo l’impossibile per evitare il manto stradale. Il tratturo è la nostra missione: trovarlo, seguirlo, intuirlo, inventarlo. Scopriamo da alcuni cartelli malposti di essere sul Celano-Foggia: solo campi arati, franati, falciati. Bisogna fare attenzione a poggiare i piedi nel posto giusto per non sprofondare fino alle ginocchia nelle cicatrici di Madre Terra, rimasta ferita dal 2002 e dimenticata lì come se non fosse di nessuno. L’asfalto corre lieto a distanza di sicurezza. Sappiamo sarebbe più facile, ma ora che ci siamo non possiamo, non vogliamo tradire il tratturo. È faticoso, è difficile, a volte sembra impossibile proseguire a piedi, ma continuiamo a camminare fiduciose. È una fede religiosa ma noi qui siamo venute come San Tommaso e nelle cose ci mettiamo le mani. Anzi i piedi, fino in fondo.
La strada è appiccicosa, uno sciame di mosche sulle braccia, ragnatele sulle gambe, sole e sudore; però ci regala panorami mozzafiato, fresche aperture in cui lo sguardo può abbracciare vastità irrinunciabili, una volta sperimentate. La situazione migliora quando raggiungiamo un crinale dove imperversano ancora pale eoliche. Alcune sono ferme, altre si muovono all’impazzata quasi a voler dimostrare qualcosa che però a noi non interessa. Ce ne allontaniamo fino a perdere il sentiero. Tornare indietro? Prendere la statale? Chiedere. Le decisioni sono più difficili quando due teste sono diventate una e - da più di tre settimane - percepiscono gli stessi bisogni nello stesso momento, fanno le medesime cose, non sono più Giulia e Clara ma solo due passi che si muovono in simbiosi su di una terra nuova. Ormai usiamo il plurale, abbiamo imparato la parte a memoria. Entrambe quella di entrambe, come gli attori bravi che a teatro sanno come riempire i buchi. È un ruolo doppio, obbligato, ma che poco si addice a due collezioniste di spontaneità. Ritorniamo un poco indietro, non vogliamo la statale a meno che non sia davvero l’unica soluzione. Ritorniamo a incrociarla di nuovo e allora inventiamo passaggi tra i campi, scavalchiamo il guardrail, percorriamo per alcuni tratti la vecchia strada ormai inesistente. Franata completamente, c’era da aspettarselo. E alla fine ci arrendiamo all’asfalto in cambio delle nostre parole, mute ormai da diversi chilometri. Una macchina si ferma. Noi non lo conosciamo ma lui sì. Michele ci stava cercando per lasciarci un dono, lui che sottovoce, con qualche timidezza, ci aveva già regalato la luna, eccolo per lasciarci un altro dono, un altro cielo.
Andrea ci accoglie a Campolieto col suo sorriso buono e ci mostra la stanza dove passeremo la notte. Facciamo appena in tempo a comprare una coca e due brioches, il nostro pranzo, che gli occhi ci si chiudono. Quando ci alziamo, è Anna a farci scoprire le voci e gli intrighi del paesino, il suo, dove continua a tornare nonostante tutti i nonostante. Restiamo affascinate dal museo dei fuochi artificiali che ci racconta un angolo di storia inaspettato, gli splendori del mondo - anche contraddittorio - che apparteneva ai nostri nonni, quello che abbiamo studiato sui libri e che si allontana sempre più.
Dopo un caffè, passeggiamo per perderci, così ci imbattiamo in Franca che, sotto al porticato, sta preparando i peperoncini che passeranno l’inverno a testa in giù. Ci mostra il suo orto con orgoglio: “A noi non manca niente”. Lo pensiamo anche noi di questo Molise senza industrie, dove il Frecciarossa non si ferma e l’autostrada non è che la sola retta che passa fra due punti, Vasto Nord e Poggio Imperiale e il cibo è un’eccellenza genuina, come il paesaggio. Hai ragione Franca, non vi manca niente.