Tappa Undici - da Bagnoli del Trigno a Trivento


22 agosto 2015 

La tappa è lunga, oggi. Nina Simone canta mentre un sole freddo spunta dai colli oltre la nebbia. Nel silenzio, prepariamo gli zaini in tempo record e neanche mezz’ora dopo siamo nella piazza deserta di Bagnoli, le tende arancio a custodire le noccioline di Alessandro e Claudio. Ci incamminiamo sulla vecchia provinciale, quasi senza parole fino a Salcito. Quando intravediamo il paesino, un signore in mezzo alla strada lo fotografa. Vive a Roma e ogni giorno porta i suoi ottant’anni a fare una passeggiata per ammirare Salcito da lontano. Alle porte del paese ci saluta e sale in macchina. Ci addentriamo e scorgiamo una bionda signora ai piedi di una lunga scalinata. Le chiediamo di poter posare gli zaini per visitare il paese e siamo subito incantate da quegli occhi accoglienti. Dopo colazione torniamo da lei, che ci offre delle paste al cioccolato “per darci energia”. Ne dobbiamo prendere almeno tre e noi, devote alle colazioni, certo non ci tiriamo indietro. Luciana ha vissuto a Roma una vita, ora però sono tre anni che ha risposto al richiamo delle origini ed è tornata a Salcito con il marito romano che, della capitale, conserva i modi affabili e caciaroni. Con loro c’è anche la sorella Irene, occhi buoni e ridenti. Questa mattina è un tripudio di “che Dio vi benedica” e forse è proprio così, perché anche oggi ci perdiamo, sì, ma per pochi minuti. Dopo Salcito riprendiamo a parlare, a giocare, a ridere.


Trivento è una lunga lingua di case sul crinale di un monte, una scia che sembra non finire mai. All’ingresso del paese ci viene incontro Annalisa con la naturalezza di un appuntamento organizzato da tempo, ci accompagna in pasticceria e ci offre la nostra terza colazione. Ha solo pochi minuti prima di andare a lavoro e li spende per noi. 
Proseguiamo qualche passo verso il centro e una macchina accosta. Santina e Angelo non sanno chi siamo ma hanno sentito parlare di noi dalle loro figlie, così ci invitano a fermarci da loro, una casa poco distante da lì. Una doccia, un pranzo e siamo già “adottate”. Santina e Angelo hanno quattro figli e un cane. Nicola, l’unico maschio, è il primogenito, poi Giulia ed Ester, gemelle, e Francesca. E Sissi. Nel pomeriggio visitiamo il centro storico con la prima cattedrale che davvero ci piace: c’è una cripta, sotto, piena di archi e colonne in pietra. Devi accendere le luci da solo. E, per favore, spegnerle quando te ne vai. Trivento è una scalinata lunghissima, impacchettata da nastri colorati che la separano dal cielo. Stasera è festa, si salgono gli scalini e a ogni rampa si assaggiano prodotti tipici, dall’antipasto al dolce. Noi però rientriamo a casa: Ester è tornata in bus da Campobasso apposta per conoscerci. Nessuno aveva mai fatto un viaggio a sorpresa per noi, lasciando il libro aperto sulla scrivania. Ester sì. Ceniamo in una lunga tavolata per una grande famiglia, Santina fa tutto, dall’antipasto al dolce: la festa è qui. Santina conosce alla perfezione i bisogni della sua famiglia e con tranquilla operosità li colma, assolvendo ogni compito con la spontaneità di chi ha trovato in questo fare per gli altri la sua vocazione. Dopo cena si preparano tutti per uscire, anche Santina che di solito resta in disparte. Solo noi crolliamo in un sonno profondo pochi minuti dopo, sotto gli occhi un po’ straniti di Sissi.

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Agnone e Pietrabbondante


21 agosto 2015 

Ci svegliamo ancora prima che Nina Simone canti, ormai abbiamo un nuovo ritmo nel corpo, il tempo del cammino, ed è difficile scrollarcelo di dosso anche se oggi è pausa, festa dei piedi. Walter, la nostra eccelsa guida dell’Alto Molise ­- ma solo per un giorno -­ ci raggiunge al bar, poi ci scorta nella sua macchina lungo un rincorrersi di curve, direzione: Agnone. 
Ci immergiamo sempre più in questo verde sempre più verde e ci mangiamo un po’ le mani per aver lasciato indietro questo angolo di terra “di confine”. I paesaggi cambiano veloci, dietro al finestrino. Non abbiamo il tempo di abituarci né di ricordarli, di odiarne le campane, di seguire i nibbi. Agnone ci appare imponente, sulla cresta alla nostra destra ma non abbiamo nemmeno il tempo di scattare una foto che il tracciato riprende a curvare. Arriviamo in centro, c’è ancora qualche striscia bianca per parcheggiare, ma la cittadina è ben diversa dai paesini che ci siamo lasciate alle spalle. Iniziamo una staffetta tra le vie del centro storico: le vecchie botteghe veneziane a P, P rovesciata, le quattordici chiese con le proprie campane, lustro della città. Ci spingiamo fino al belvedere -­ o mirargiocondo -­ e lo spettacolo che ci circonda è la natura coi suoi colori della festa. Un uomo prega le montagne: “dovreste venire di sera” dice “sembra un presepio”. E noi gli crediamo perché qui, da un paese all’altro, ci sono solo le stelle a far da lampione. 
Mentre Walter ci fa strada verso il museo incappiamo in uno degli ultimi fabbri della città. Il sorriso timido delle persone umili ai complimenti. Appena ci avviciniamo si pulisce le mani in una pezzuola unta. Dopo di lui non ci sarà nessuno a prendere il suo posto, ma la vita va così, sembra dirci coi suoi occhi color ferro. La biblioteca dà sul chiostro di San Francesco. Ci piacciono i chiostri che soli dicono pace. Qui Agnone custodisce preziosi volumi che fanno gola, quasi a voler dire: un tempo siamo stati importanti, vogliamo esserlo ancora. Firmiamo il libro degli ospiti, ma non quello all’ingresso, quello chiuso dentro un cassetto a chiave, inaugurato da papa Giovanni Paolo II. C’è un po’ di timore reverenziale poi però la mano è più svelta e lascia il segno di due passi in Molise. Walter si prende cura di una mostra sui Sanniti e noi siamo davvero felici di visitarla perché qui vediamo condensato, amplificato, tutto quello che abbiamo imparato fino a oggi. E ci emozioniamo un po’ davanti alla tavoletta originale in lingua osca.


Corriamo in macchina e poi Pietrabbondante. Abbiamo il cuore un po’ in subbuglio, ma anche i nodi si sciolgono davanti a quello che troviamo: c’è qualcosa di straordinario, una bellezza sopita, come i muri lo dicessero che sono più antichi pure di Roma. Prendiamo tempo, Walter è una guida eccellente, ma lì è tutto da assaporare con gli occhi, ogni singola pietra, la famiglia in vacanza, gli archeologi in pausa pranzo. Contribuiscono tutti a creare meraviglia. Questa “gita” è un pasto mangiato di fretta: compriamo tre panini e ci rimpinziamo nel bosco di Collemeluccio appena prima che inizi a piovere. Torniamo a Bagnoli e salutiamo Walter; guardiamo il temporale dalla cameretta, suoniamo, diciamo tante parole che non sono un discorso perché ogni giorno, qui, ora, sono ben più di ventiquattro ore e a noi ne servirebbero almeno trenta. Poi andiamo a letto sfinite, anche se oggi i chilometri li abbiamo percorsi con testa e occhi.

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Tappa Dieci - da Civitanova del Sannio a Bagnoli del Trigno


20 agosto 2015 

Bagnoli. Paese di tassisti e zanzare tigre.

Questa mattina il buon Vito ci ha offerto la colazione e ci ha accompagnate per un pezzo lungo il tratturo e sul sentiero, prima di tornare a Civitanova in tempo per la messa in ricordo di sua mamma, morta oggi tre anni fa. Vito non parla molto, ma le sue parole sono soffici, come il suo modo di affrontare la vita. Non sappiamo se ci rivedremo, ma incontrarlo ci ha lasciato in eredità il desiderio di proteggere questo modo di vivere di cui si sente la nostalgia solo quando lo ritrovi in qualcuno. Quando torna sui suoi passi, noi camminiamo nel fango di una frana riparata da poco. Ci stupiamo della velocità dei nostri passi e alle dieci siamo già a Bagnoli. Entriamo in paese salutando le persone che incontriamo. Non ci (ri)conosce nessuno, solo una ragazza esprime la sua stima con un pollice alzato. Si respira una strana aria, qui. Sembra un quartiere di Roma trasferitosi in Molise: c’è baccano, c’è confusione. Si avvicina a noi Giuseppe, ha una gamba ingessata e con un gran sorriso ci indica un ragazzo del posto a cui chiedere informazioni: “lui vive qui anche d’inverno, sicuramente vi potrà aiutare”. La maggior parte della gente che c’è in giro, invece, è venuta qui in vacanza. In taxi. Il proprio taxi. 
Partecipiamo anche noi della confusione di questa piazza, ma in un modo diverso. Non sappiamo bene cosa fare, ci lasciamo invadere dalle sensazioni accovacciate su una panchina. Sono tutti in fermento, questi sono giorni di festa. Decidiamo di rivolgerci al parroco che sta celebrando messa. Allora attendiamo, mentre la gente si accalca riempiendo la chiesa e persino una stanza sotterranea, forse costruita apposta per l’afflusso estivo di fedeli. È un’ospitalità incredula quella che riceviamo, il parroco un po’ imbarazzato si offre persino di pagarci il pranzo, ma a noi basta un tetto. Nella casa del pellegrino abitano per dieci giorni anche Claudio e Alessandro, di ventuno e sedici anni, che vendono le noccioline in piazza in queste sere d’estate. Sono persone che si adattano, loro, e che sanno trasformare ogni luogo in casa, perché le tende del loro negozio ambulante sono arancioni. È una situazione surreale, tra statue di santi accatastate, una sala da pranzo con playstation e carte per giocare insieme, una cucina dal gas singhiozzante con il quale ci preparano un pranzo da due in cui mangiamo in quattro. È un’ospitalità concreta e senza fronzoli, la loro. Un’ospitalità sincera e spiazzante. Claudio dà ordini e Alessandro esegue senza esitare, senza fiatare. Ci guarda con gli occhi grandi e basiti, mentre raccontiamo di questo viaggio che lascia i nostri fidanzati a casa, anche quando di fidanzati non ce ne sono, se non nelle parole che escono spontanee per difesa. Perché la vita ci ha riservato esperienze diverse, perché anche noi ci adattiamo, ma dopo aver incontrato tante persone che, incredule, continuano a chiederci -­ e a chiedersi -­ se non abbiamo paura, forse alla fine un po’ di paura l’hanno insinuata e un po’ di distanza la prendiamo. Giusto quella che serve per trovare un nuovo punto di incontro e condivisione.


Facciamo un altro giro nel paese nella “terra di basso” e ci perdiamo in vicoli tortuosi che non portano da nessuna parte. Risaliamo in piazza costeggiando la roccia viva che separa e tiene insieme il paese e incrociamo una processione, dopo aver messo un biglietto d’amore per il Molise nella “bocca di Cupido”. In piazza, il profano in coda al sacro: si sta allestendo il palco per un concerto. Chiediamo informazioni per la cena a una signora verde e viola, un suo amico ci riconosce, sanno che stiamo facendo il giro del Molise a piedi, parliamo un po’. È un’ospitalità diversa, qui. Un’ospitalità che va ricercata, che va richiesta. È un incontro che deve partire da noi, dal nostro “sforzo”. Ma oggi abbiamo ricevuto quella dei nostri coinquilini ed è già un gran regalo. 

Di Bagnoli del Trigno, città doppia, dirò solo poche cose. Si arrampica sulla roccia, l’una, mentre l’altra dei monti non vede che le spalle. Le campane si rincorrono sempre: quella di basc’ fa l’eco a quella in copp’ e nessuna delle due segna l’ora, ma la precedenza di una sull’altra. Quando viene agosto, i suoi abitanti si nascondono negli anfratti per lasciare posto ai tassì che riempiono le strade. Mettono di nuovo la testa fuori solo per le feste. Due sono le chiese, due i campanili, due i santi patroni, così che ­chi vi abita­ non sa più a chi appartiene: quando è felice, vorrebbe essere triste; quando è sveglio vorrebbe dormire; quando arriva qualcuno vorrebbe essere ospitale, ma l’altra parte della città non gli permette di essere né l’uno né il due, così rimane fermo dove si trova. E aspetta.

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Tappa Nove - da Torella del Sannio a Civitanova del Sannio


18 agosto 2015 

Questa mattina, per la prima volta, siamo riuscite a partire “in tempo”. Questo tempo che ha un corso tutto suo e che siamo noi a decidere in base al sole e ai chilometri. Ci siamo fermate a fare colazione in pasticceria a Torella. Gianni ce l’aveva pagata la sera prima senza dirci nulla. Ha un cuore grande e un occhio gonfio e stasera aprirà la sfilata della festa a Bagnoli del Trigno come Duca, per poi abbandonare questa partecipazione all’apice della sua carriera. Prendiamo il tratturo, che qui è una bella linea dritta che taglia le curve di livello e la prima cosa che vediamo è una volpe che attraversa, sola, un campo. Non si può non pensare a quella storia, in quel momento. C’era un bambino e una volpe, un campo di grano. Poi un cagnolino inizia a seguirci e lo battezziamo Pis II. Ci divertiamo a saltare sulle balle di fieno, noncuranti delle vesciche ai piedi, ridiamo come due bambine poi, quando ci sembra che il gioco sia durato abbastanza, riprendiamo il cammino alla volta di Duronia. Sappiamo che ci verrà incontro Giovanni. Non l’abbiamo mai visto se non in foto ma, appena scorgiamo la sua figura da lontano, ci prende una strana gioia, un’agitazione simile a quella che si prova agli arrivi, quando sai che qualcuno ti sta aspettando ma non sai chi. E acceleriamo il passo senza accorgercene e spegniamo la videocamera per non sporcare quel momento. 
Incontrare qualcuno sul tratturo è emozionante: lo noti, provi a immaginarne la forma, la faccia, lo distingui e c’è l’imbarazzo di volerlo salutare ma poi aspetti, continui a camminare, sorridi. E ti fermi. Questo è il ritmo.


Giovanni ci accoglie insieme a sua moglie, Emanuele e Roberto. Camminiamo fino a Duronia insieme, percorriamo il tratturo come un piccolo gregge che conosce a memoria la strada. A Duronia ci raggiunge anche Padre Antonio, fratello missionario di Giovanni appena tornato dal Bangladesh e poi un’altra, un’altra e un’altra persona e i tempi si allungano, come in uno sketch sul Sud Italia. A noi non dispiace osservare questo spettacolo, ma siamo spettatori lontani. È lontano dalla “cortesia” torinese, dai due bacetti gelidi quando si lascia piazza Castello e si torna a casa, la sera. 
Le nostre guide ci conducono alla Civita, la comitiva si è allargata. La Civita è quello che rimane di un muro di cinta sopra ad una montagna con lo strapiombo tutt’intorno e - da lassù - tutto fa un po’ più paura, tutto vale un po’ meno. Passeggiamo in cresta sfidando anche le nostre, di paure. Ci raccontano com’era e dietro ai nostri occhi prendono forma ricordi altrui, come avventure di tempi lontani. Giovanni e Padre Antonio ricordano e sono solo le undici, ma sappiamo già che quello sarà il momento più bello della giornata. Questa immersione ci accompagna fin dentro al paese, nei vicoli, fino alla croce di San Tommaso, che fu monastero, rifugio dalle bombe aeree, fonte battesimale, luogo di nulla in cui trovare riparo quando si vuole solo il cielo come tetto. Giovanni ci invita a pranzo e siamo davvero tentate di accettare, ma abbiamo un patto con i tratturi, con la strada, con noi stesse. Questo nostro andare ha delle regole rigide che non ci siamo mai dette ma che vanno rispettate. Giovanni ci scorta per un tratto e come un bravo papà ci alleggerisce lo zaino di tutti i doni che abbiamo raccolto fino a qua. Forse è un modo per essere certi di rivederci, che importa. 
La salita a Civitanova cuoce le fronti, ormai sono le due e la città dorme. Entriamo in una pasticceria e ci concediamo il lusso di una fetta di torta, mentre diventiamo parte dell’immobilità del primo pomeriggio. Roberta ci riconosce e ci offre un posto dove dormire. Accettiamo con un po’ di confusione: siamo partite da una sola settimana e ci sembrano mesi. 
DovremmosalireaChiaucimaforsesiamostanchedobbiamoscriveredobbiamoandarerestareoandaredomanipioveràfermarsiungiornounosoltantomagarirestiamo. Abbiamo bisogno di una pausa.


Vito ci porta a zonzo, prima al monastero e poi per i vicoletti svuotati dagli anni. Civitanova è carina ma risuona perché è cava. E ci sentiamo anche noi un po’ così, stasera. Mangiamo svelte e, per la prima volta, dormiamo sapendo che la sveglia domani non suona alle sei.

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