Tappa Diciotto - da Campomarino a San Martino in Pensilis


29 agosto 2015 

Siamo uscite senza far rumore, lasciando poche parole su un biglietto per ringraziare questi nonni dal sorriso facile che ci hanno accolte senza pensarci due volte. Ci fermiamo religiosamente al primo bar, non sono neanche le sette e il sole è già caldo. Tutta la tappa è su asfalto, una strada non molto trafficata dove però le macchine vanno veloci chissà dove, non rallentano alla nostra vista. Cerchiamo sollievo e riparo costeggiando campi di pomodori e meloni, vigne e uliveti. Alcuni extracomunitari raccolgono ortaggi, un cane è stecchito al bordo della strada: oggi Radio Tratturo non trasmette. Ci manca, il tratturo. Però è sempre presente, quest’oggi dà il nome alla via che ci porta a San Martino. Ei fu, siccome asfalto. Nella rosa di emozioni provate mancava la noia, che oggi fa capolino e ci accompagna assieme al sudore e al timore di essere investite. La soprannominiamo “noia mortale”. Ci stupiamo sia arrivata dopo così tanti giorni di viaggio, probabilmente il fatto di vedere il mare di nuovo lontano, alle nostre spalle, amplifica questa sensazione. Siamo più silenziose del solito, proviamo a cantare, ma le parole sono appiccicose, più di questo caldo. Arriviamo alle undici, stretching, panino che ci ha lasciato la famiglia di Cinzia, poi arriva Giancarlo: occhi vispi, sorriso buono. Ci apre le porte del palazzo baronale, dove alloggeremo stanotte. Un’ala è di un privato che l’ha ristrutturata a meraviglia, l’altra è da poco del comune e per noi è già tantissimo. Ha spazi stupendi, speriamo riescano a farlo rivivere al meglio. Dopo un giro delle stanze Giancarlo ci lascia riposare, poi ci invita a pranzo a casa sua: spaghetti quadrati con il suo sugo speciale al pomodoro ­- davvero speciale! -­ e poi pampanella, frutta, gelato. Ci raggiungono alla spicciolata Marcello, Enzo e Peppino. Funziona un po’ così, qui in Molise. Le porte di casa aspettano sempre aperte. Dopo il pranzo “paesaggistico” a chilometri zero, caffè e ammazzacaffè, ci dilunghiamo, si raccontano le storie e la storia del paese, non mancano piccoli battibecchi in simpatia sul valore storico di San Martino VS. Larino, paese di Marcello. Noi seguiamo divertite, ma il sonno ci coglie alla sprovvista e ci ritiriamo nelle nostre stanze. Mentre ci avviamo, i nostri amici raccontano che il palazzo è infestato dai fantasmi. Lo avevano detto anche a Torella, ma siamo sopravvissute. Così, mentre Giulia si addormenta di sasso, a Clara pare di sentire strani rumori e non chiude occhio. Più tardi, Giancarlo, Enzo e Peppino ci accompagnano in un giro per il centro storico. Peppino è medico, ma conosce bene le storie racchiuse in queste pietre e in un paio d’ore questo borgo medievale si riempie di simboli e ricordi altrui. Scusaci, Peppino, ma dei nomi e delle date ricordiamo solo la storia del ragazzo povero divenuto medico e professore e gli incappucciati della congrega della morte. Anche la società operaia, in effetti. E San Leo.


Mentre passeggiamo lungo il decumano, il profumo della lunga cottura della pampanella ci segue, punteggiato da urla e litigi tra coniugi: non sono riusciti a cuocerla come si deve.
Ieri abbiamo ricevuto una mail da Michele: non lo conosciamo ma oggi sorgerà la luna piena e ci dà tutti i suggerimenti per goderci lo spettacolo al meglio. Verso le sette, esplorando il palazzo, scopriamo una tettoia che domina il paese, dalla quale si scorgono persino le Tremiti. È uno spettacolo: mentre il sole tramonta, dalla parte opposta la luna rosa sorge, enorme. Il campanile divide i loro cieli in parti uguali. Restiamo affascinate fino alla vittoria della luna sul sole e la rivalsa delle altre stelle. E quando andiamo a dormire, avviciniamo i letti e chiudiamo la porta, anche se i fantasmi non esistono.

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Tappa Diciassette - da Termoli a Campomarino


28 agosto 2015 

A Termoli ci arriviamo di notte. Siamo ospiti di Cinzia, ci ha preparato due letti in sala e ha spostato Ernesto in bagno, per non disturbare. Ernesto è un criceto che, insieme a Sushi -­ ovviamente un pesce rosso -­, dividono l’appartamento con lei. Di Cinzia ammiriamo la femminilità e la grazia con cui fa tutto, dagli aiuti tecnologici alla visita guidata di Termoli. Noi, con tre cambi nello zaino e i capelli da ragazzino in pubertà. 
La mattina seguente facciamo le turiste: schiena leggera e vestito della festa; Cinzia oggi non lavora e ci accompagna. Appena entriamo nel centro storico, ci racconta che quello su cui stiamo passeggiando è il “nuovo” corso Nazionale, un’ampia via pedonale costeggiata da negozi; è così solo da pochi mesi, prima ci passavano le macchine, c’erano marciapiedi, un’altra forma. La relatività dello sguardo. Arriviamo al castello e al mare con i suoi trabucchi che ci fanno sognare altre vite. Vite da pescatori, da pirati. Poi rientriamo tra le case pastello e ci perdiamo negli splendidi vicoli del borgo antico, attraversando anche la -­ seconda -­ via più stretta del mondo. Restiamo ammaliate dalla rosa dei venti, tutti quelli che attraversano la città. E sono tanti. Sono molti più di quelli che conosciamo per sentito dire, tutti italianissimi, nessuna Katrina o Sandy a darsi aria. In pausa pranzo ci raggiunge Gilda, mangiamo insieme, Cinzia invece ci lascia per proseguire la giornata, ci aspetterà a casa più tardi. Con Gilda scopriamo quello che ribattezziamo “il polpo dei templari”, un posto delizioso tutto pietra e nicchie, solo noi a guastarne il silenzio. Il pesce è fresco, pescato di buon mattino dallo stesso proprietario del locale; ci rilassiamo assieme alla nostra amica molisana, la quale ci svela altri angoli di città e ci mostra la sua casa dei sogni vista mare. Il mare: non possiamo partire senza salutarlo, così eccoci, zaino in spalla sugli scogli per il primo e ultimo bagno termolese, poi via verso Campomarino.


Peccato che l’unico ponte sul Biferno coincida con una statale in cui le macchine sfrecciano agguerrite a pochi centimetri da noi: ci tocca viaggiare con la morte alle spalle, non se ne parla di attraversare né ci è possibile tagliar per campi o ripararci con il guardrail. Poi però finisce e, con lui, anche il Biferno. Restiamo a contemplarne la foce, ripensando a quando eravamo a Bojano, alla sua sorgente, e ci fermiamo tristi a guardare quanta poca acqua affluisca al mare. Facciamo qualche passo e lì arriviamo alla vera foce del Biferno, un flusso copioso che salutiamo con l’emozione consapevole dei chilometri percorsi. Ci eravamo sbagliate, per fortuna. 
Per entrare a Campomarino scegliamo il sentiero. Sassolini bianchi che ci accompagnano per una salita più ripida rispetto all’asfalto, ma più graziosa che va a gettarsi in un vicolo cieco. Abbiamo voglia di arrivare e poi non sopportiamo di tornare sui nostri passi così chiamiamo a gran voce il nessuno che non c’è mai. Il caso/la provvidenza/il destino, tutti insieme vogliono sorprenderci e, in quel momento, fa capolino un abitante che ­- un po’ infastidito -­ ci lascia attraversare casa sua per tornare sulla strada principale. Un’anziana signora si sporge dalla porta aperta per salutarci e parlarci della sua famiglia di musicisti emigrati in Germania. Poche parole, pochi minuti. C’è sempre modo e tempo di raccontare una vita.


Ci addentriamo nel centro storico e, appena voltiamo, l’angolo i muri rinascono grazie ai murales realizzati negli anni da diversi artisti, locali e internazionali. Passeggiamo in questo labirinto per un po’, prima di accorgerci di due ragazzi che stanno ad ascoltare una signora affacciata al balcone fiorito di una casa arancione. Una scena già vista, in qualche pagina al liceo. Si chiama Costanza e noi non perdiamo l’occasione di scambiare due chiacchiere con lei. Così scopriamo poco a poco la storia di Campomarino, la parte alta della città che coi denti stretti cerca di rimanere viva. E bella. Costanza ci offre anche un posto dove dormire, però ora deve scappare a una cena con amici, così noi proseguiamo il cammino con la stessa fiducia di sempre. 
Adocchiamo un prato lindo, un prato vero. Ma il nostro sguardo deve avere qualcosa di terribilmente decifrabile perché all’istante ci sconsigliano di piantarvi la tenda, qui volano le multe, non servono parole. Ci incamminiamo alla ricerca di Don Rosario, “lui potrà sicuramente aiutarvi” ma il Don non è in casa, non è in parrocchia. Chiediamo aiuto a Sicuro, un carabiniere di fresca pensione che ci scorta per le vie della città nuova all’inseguimento del pulmino delle suore. Ci ritroviamo a una cena diocesana ma nessuno degli invitati può suggerirci un posto dove accomodarci. Sicuro cerca un appoggio nel lido dove lavora suo figlio, una cosa sottobanco, sono due brave ragazze, ma papà, quelli mi licenziano. Però il Molise è piccolo e, mentre assecondiamo il nostro angelo custode quotidiano in un paio di scherzi telefonici, sfruttando la nostra finta piemontesità, Gilda ci chiama: ha trovato una casa che ci può ospitare per la notte. Dormiremo dai nonni di Pascal, un suo amico o forse lontano parente, non sappiamo ma non è così importante. Anche stanotte qualcuno ci ha aperto la porta e noi non possiamo non pensare a quanto ci sia facile chiuderla a chiave. Un automatismo di paure che ci fanno sempre più inespugnabili. 
Ora siamo qui, il materasso è morbido e il sacco a pelo sta chiuso nello zaino: nonna ha voluto che usassimo le coperte. E gli asciugamani. E il bagnoschiuma e lo shampoo. Ci ha cucinato due spinacine e siamo rimasti a parlare fino a tardi, noi due, nipoti incoscienti e affettuose, loro due nonni moderni che attraversano l’oceano e si fidano dei cambiamenti e della vita.

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Tappa Sedici - da Petacciato a Termoli


27 agosto 2015 

Non aspettiamo la sveglia stamane, ma anticipiamo il nascere del sole camminando sulla spiaggia fresca. Ci siamo solo noi e due pescatori inesperti che armeggiano con le loro canne approfittando di questi attimi di attesa. Non lo so perché la gente preferisca i tramonti, l’alba sola è in grado di raccontare quel sentimento di speranza che la natura custodisce. L’acqua è calda, ascoltiamo in silenzio la nascita del sole e poi ci tuffiamo. Sono solo le sei e mezza e non possiamo non ammettere che ogni giornata dovrebbe iniziare così. Fantastichiamo sui nostri desideri di cambiare aria, città, di gioire guardando il mare d’inverno e di lasciare la falsa cortese Torino che amiamo così tanto, l’abbiamo scelta. 
Sara ci raggiunge, è rimasta con noi stanotte e non fa che ringraziarci per tutta questa vita. Poi ci conduce sulle dune, il luogo che ama di più e per il quale è tornata in Molise, il motivo per cui da Campobasso si è spostata a Termoli, la ragione per cui è felice. Siamo affascinate e sorprese di come la natura si adatti e reagisca ai cambiamenti in modo facile e meccanico. Noi no, quasi non fossimo natura. 
A colazione siamo ospiti della famiglia di Gilda, ma siamo pur sempre in Sud Italia, un caffè tira l’altro e ci ritroviamo sedute allo stesso tavolo anche a pranzo. Prima di ripartire per Termoli ci concediamo un altro tuffo e ora non siamo che due dei tanti bagnanti, ma con la sensazione di custodire un segreto, un patto tra noi e il mare, che la gente non sa cosa si perde, che l’alba sul mare è una di quelle cose che si sanno, forse, ma non si vivono. Non abbastanza.


A Termoli ci andiamo via spiaggia, ci carichiamo dei nostri zaini ormai casa e degli sguardi increduli di chi per vacanza intende altro. E ci scambiano per straniere, così noi parliamo più forte. Camminare scalze ci fa sentire ancora più primordiali; è una fatica diversa dal solito ma della strada non ci spaventa quasi più niente e questa è una conquista fatta di tanti chilometri. 
Sara ci raggiunge alle porte di Termoli, ormai è buio e della città non vediamo che un bel mucchietto di pietra e luce a picco sul mare. Ci allontaniamo con l’acquolina in bocca e i piedi coperti di sabbia.

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