Tappa Otto - da Oratino a Torella del Sannio


17 agosto 2015 

Ha ragione Luisa, qui le campane hanno un suono che è già dolce nostalgia. Ci prendiamo una pausa a metà strada, sedute sugli scalini della Chiesa Madre a Castropignano, attendendo una signora dall’accento norditalico che ci ha offerto un bagno e ci ha chiesto se siamo pellegrine. In un certo senso sì, siamo pellegrine dei tratturi molisani, combattiamo con i nostri passi l’idea che ormai non si possano più percorrere, li inseguiamo, li cerchiamo, li riesumiamo. Stamattina abbiamo seguito per un poco le indicazioni di uno degli anziani seduti fuori dal bar in piazza a Oratino; poi, tra bosco e asfalto, abbiamo scelto il bosco. Non possiamo dire di esserci perse, diciamo che ci siamo inventate una scorciatoia, con un po’ di timore, quello sì, ma con la fiducia nello “spirito del tratturo”, che anche se non c’è, esiste. Abbiamo ceduto all’asfalto solo per attraversare il Biferno e, sebbene fossimo partite sole, l’abbiamo fatto con otto piedi. Poco oltre il bosco, infatti, un cane nero ha iniziato a seguirci. A scortarci. Pis (Peace, Piece) è rimasto con noi fino alle porte di Castropignano, abbiamo camminato insieme, abbiamo fatto branco. Oggi incontriamo il primo cartello, verde stinto, che indica il tratturo, ora asfaltato: in questa transumanza molisana siamo ancora più vacche moderne, con il cane che ci raduna. 
La salita per Castropignano è davvero ardua, specie dopo una lunga discesa accidentata, con gli zaini pesanti, le vesciche ai piedi e l’idea di tagliare le curve percorrendo una strada interna ripidissima. Il paese, però, è davvero delizioso.


Mentre siamo sedute compare Pasquale che ci conosce anche meglio di noi. Spezza il silenzio del paese con il rumore della sua moto. Gli chiediamo venti minuti di pace e lui capisce, ce li concede, ripresentandosi puntuale all’appuntamento. Ci porta a conoscere il paese che sembra completamente addormentato, svuotato. Un senso di abbandono forte, come se l’avessero lasciato lì un attimo, dicendo “torno fra poco” e qualcuno l’avesse poi dimenticato. Pasquale ha le chiavi di mezzo paese e sembrava non aspettare altro che il nostro arrivo. Ci invita a bere un bicchiere di vino e ad assaggiare il caciocavallo in una casetta deliziosa dalla cui terrazza vediamo tutta la strada percorsa stamattina. È un posto dove ci piacerebbe stare, ma ripartiamo affrontando una salita d’asfalto cocente. Il panorama toglie il fiato. 
Dopo due curve, due macchine si fermano contemporaneamente: sanno che abbiamo sbagliato strada. Loro sì. Noi no. In una di queste c’è Gianni, che per prima cosa si premura di mettere in salvo il vestito della festa dal nostro arrivo, zozzo e impetuoso. Torniamo sui nostri passi e ci conduce a casa di Carmen e Mario. Lui non è ancora tornato, ma in casa c’è il piccolo Pietro, che parla poco e osserva molto. Abbiamo subito l’impressione di avere davanti una donna di quelle con la D grande, concreta, pragmatica, forte e indipendente. Ci porta a vedere formaggi, pecore, ci insegna a riconoscere il gheppio, che dall’alto osserva le galline aspettando il momento giusto. Finalmente arriva Mario, con lui due WWOOFers, che dalla laboriosa Lombardia cercano un’alternativa proprio qui. Buffa la vita. Siamo otto in tavola, ma il cibo non manca, così come il concerto finale. Ci accorgiamo che stiamo vivendo qualcosa di artificioso, sebbene il posto e il momento richiedano a gran voce genuinità, a noi sembra tutto un po’ sopra le righe. Forse per la stanchezza di essere a lavoro dall’alba o per il desiderio di condensare in pochi istanti tradizioni fatte di gesti quotidiani, o forse ancora con sincero entusiasmo per la nostra presenza.


A Torella ci sistemiamo nel palazzo ducale, il suo proprietario l’ha lasciato per una sera alle due vagabonde incoscienti. C’è qualcosa di triste e perfetto in questo luogo d’incanto, come i presepi chiusi nel cellophane ad aspettare il Natale seguente. Gianni ci accompagna anche durante la visita a quel che resta dell’antico splendore dei Ciamarra, la famiglia che dall’alto del suo castello splendeva su Torella. L’edificio è antico ma pieno di oggetti, vestiti, etichette di inizio anni ‘90. Ci sentiamo un po’ a disagio nel passeggiare luoghi altrui, ma è un voyeurismo senza peccato, come quello che piace ai nobili. Poi ci perdiamo per le strade di Torella, per le sue pietre fredde che, di anno in anno, cadono e non significano più niente, soprattutto per chi le ha vissute e su quelle pietre ha bevuto la prima birra, ha nascosto le sigarette, ha dato il primo bacio. Il sorriso dolce di Gianni appassisce mentre guarda cosa rimane del paese vecchio che lui continua ad amare incondizionatamente con la fiducia di un santo. La pietra è fatta per restare, non per fuggire. E nonostante in lui ci sia una tensione, una passione verso i migranti, ancora lui resta, uomo pietra, a sostenere Torella. E il Molise. Pur avendo poco più di trent’anni è una delle memorie di questo paese ed è anche grazie a lui che a Torella è stato innalzato il monumento per le vittime di Monongah, dove una signora si reca ogni giorno a ricordare il proprio padre. 
Un altro pezzo di storia lo impariamo dalle signorine, sorelle, insegnanti, donne di cultura innamorate del loro paese. In meno di mezz’ora sono in grado di costruire lucidamente una linea rossa che descrive e sintetizza a noi, straniere inconsapevoli, tutti i perché di questo Molise contraddittorio e agro. Con l’attenzione e il lucido distacco di chi lo guarda dopo anni di lontananza, con il fervore viscerale di chi non se ne andrebbe mai. È un incontro breve ma essenziale per costruire la cornice del puzzle. Ne usciamo soddisfatte e senza troppe parole ci facciamo condurre dal nostro Cicerone mai stanco. Non importa dove, Gianni ha la sicurezza che imprime fiducia. E così ci ritroviamo al colle dell’Orso, sopra Frosolone, a respirare aria buona, la stessa delle mucche al pascolo, ad assaggiare caciocavalli, a forgiare coltelli, ad accorgerci che di mesi in Molise non ne basterebbero nemmeno due. Torniamo “a casa” e non ci accorgiamo nemmeno che Gianni ci ha preparato anche la cena, solo prodotti molisani DOC. Come lui.

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Tappa Sette - da Campobasso a Oratino

16 agosto 2015 

Francesca e Leo ci vengono a prendere puntuali e ci portano a far colazione in quello che per noi resterà il bar più buono di Campobasso. Stiamo insieme poco tempo, ma già basta per entrare in profondità nelle loro vite. Abbiamo la sensazione di essere privilegiate, le persone che incontriamo si raccontano a cuore aperto, chissà perché. Forse perché il nostro è “un mestiere di vento” e si ha la sensazione che le parole volino via insieme ai passi. 
Inizia a piovere mentre attendiamo le nostre compagne di viaggio. Oggi saremo in sei. Dodici piedi. Tutte donne. Riempiamo questo vecchio tratturo asfaltato di voci squillanti. E la strada è tornata strada: un mezzo per collegare un posto ad un altro, una persona all’altra; ci dimentichiamo di celebrarla perché abbiamo altro da fare, oggi. 

Oratino è uno di quei pacchi regalo che ti dispiace scartare: la prima cosa che facciamo, infatti, è fermarci al belvedere per guardare fuori. Belvedere è una parola che non ci piace e che soprattutto oggi non rende giustizia a questo spettacolo di nubi e colline: lo ribattezziamo mirargiocondo. Salutiamo due delle ragazze e, dopo un caffè, anche le altre compagne di viaggio. Ci ripariamo dalla pioggia sotto un arco fino a quando non compare Alessio, che ci invita a unirci al pranzo della Pro Loco. Quindici persone, un brindisi e l’assaggio della tazza: da altre parti si chiama scattone, ma resta sempre una tazza in cui annegare, con vino e acqua di cottura, una piccola porzione di pasta. Tipico aperitivo molisano. Dopo pranzo siamo invitate a una visita guidata del borgo che inizia proprio dal nostro mirargiocondo. Anche Oratino fa dei miti del proprio passato il suo punto di forza: nomi sconosciuti ai più, che non troveremo mai sui libri di storia, ma che sono motore e fonte di ispirazione per chi li abita e si impegna per rendere questo luogo IL più bello. Se Oratino è uno dei borghi più belli d’Italia è perché i suoi abitanti hanno voluto che lo fosse. 


Nella struttura in cui dormiremo stanotte c’è anche un ragazzo, che ancor prima di conoscerci ci invita a seguirlo in un’altra stanza: si chiama Luigi, è un fotografo e ci chiede un parere sul suo lavoro. Domani esporrà alcuni degli scatti che ha realizzato in queste ultime due settimane e ci guarda con umiltà e tensione mentre osserviamo in anteprima le sue opere. Sorprende la sua mancanza di presunzione e continuiamo a restare stupite dall’essere considerate, qui, come un occhio esterno necessario per valorizzare la quotidianità.

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Tappa Sei - da San Giuliano del Sannio a Campobasso


15 agosto 2015 

Mentre prepariamo lente i nostri zaini, osserviamo con la luce dellalba gli angoli di questa casa che ha raccolto dentro di sé le storie di tante vite. Rosaria e Francesco ci hanno lasciato yogurt, fette biscottate, marmellata, caffè e una grossa fetta di caprese, torta al cioccolato su cui si concentra la nostra venerazione. Attraversiamo la pineta con il cuore e listinto che ci chiedono di restare, di fermarci ancora un po, ma c’è gente che ci aspetta al paese. C’è la strada che ci chiama. Tutta la famiglia è già al lavoro per accogliere i prossimi ospiti, ma ognuno trova un momento per salutarci e rendere la partenza ancora più difficile. A San Giuliano, Peppino e Salvatore ci attendono, pronti per partire, mentre Luigia -­ moglie di Salvatore -­ ci dona due sacchetti di tarallini appena fatti, ci saluta e se ne va. 

Ci incamminiamo insieme, noi ragazze immerse nel silenzio, gli uomini iniziano discorsi quotidiani su conoscenze comuni. Passo dopo passo le parole si spostano sulla strada, sulla necessità di salvaguardare, comunicare e conservare la bellezza di questi sentieri. Le piante e i fiori diventano ricordi, così come i sapori perduti della mela limoncella o gli aneddoti storici: sul tratturo crescono i noci perché i pastori mangiavano frutta secca, ricca di energia per la transumanza. Ragioniamo a quattro voci sulla natura umana, ci fermiamo più spesso rispetto a quando camminiamo sole però, grazie alla guida di Peppino, scavalchiamo un muretto e ci arrampichiamo su una collina, inventando il sentiero tra i campi e nel bosco ripido, sostenuti dalle ginestre e dai piedi pesanti che compattano il terreno. Dopo una salita tra gli arbusti, allimprovviso sbuchiamo in una radura affollata, organizzano tavoli e barbecue a fianco alla chiesa di Santa Maria a Monteverde. Ci accorgiamo solo ora che per il mondo è Ferragosto ed è strano passare così in fretta dal rumore del proprio respiro al vociare festaiolo. Riconosciamo una ragazza incontrata il giorno prima da Rosaria e Francesco e quasi non ci escono parole, solo sorrisi straniti. Le coincidenze non sono finite. Ieri Francesco ci ha lasciato il numero di Alessandro, esperto di sentieri molisani e, proprio mentre stiamo per ripartire, Peppino lo saluta. Raccogliamo così qualche suggerimento e proseguiamo sul tratturello, un mosaico di sassi bianchi in mezzo allerba e alle conifere. Molti bivi, i nostri compagni di viaggio controllano col GPS, noi siamo ormai abituate a perderci leggere su tutte le strade, giuste o sbagliate che siano. Sono meno di sette chilometri, ma anche Peppino e Salvatore si rendono conto che, camminandoli, sembrano molti di più. Ci accompagnano ancora un po, fino a quando le nostre strade si dividono:  loro prenderanno lasfalto, noi seguiremo il sentiero. Salvatore chiama la moglie perché li venga a prendere: Come, hai le cose nel forno?. Dovranno aspettare i tempi di cottura. Li salutiamo a modo nostro: ogni mattina, quando iniziamo a camminare, prendiamo alcuni sassi dal tratturo. Un poper muovere le cose, un poperché sappiamo che incontreremo delle persone che alleggeriranno i nostri passi. Regalandolo, questo peso si trasforma in un simbolo di gratitudine e noi ci alleggeriamo davvero. Peppino e Salvatore sono spiazzati, imbarazzati ma ci ringraziano di cuore. I molisani sono concreti, sono arcaici. Non ci verrebbe mai un gesto di questa poesia. Noi siamo più per un abbraccio o per offrire da bere o da mangiare. Grazie


Ci godiamo la frescura del bosco e ripensiamo ai discorsi appena terminati, al Molise che non c’è, fino a quando, dal fondo di questa natura, arriva una musica latino­americana a tutto volume. Che succede? Non importa, balliamo anche con gli zaini una mazurka che parte subito dopo. È tardi, abbiamo una discesa e una lunga risalita prima di arrivare a destinazione. È il momento giusto per giocarci la carta della leggerezza. Ridiamo insieme, questa è una grande fonte di energia, quando le riserve stanno per finire. Presto arriviamo alla fonte delle canzoni esilaranti che riempiono questa terra di silenzi: un agriturismo in piena festa, ai piedi di una salita tortuosa e ripidissima, di cui non vediamo la fine neppure dopo unora di cammino sotto al sole cocente.
Arrivate in cima, ci inseguono nubi cariche di lampi e pioggia. Le scansiamo fino alle porte di Campobasso. A un incrocio seguiamo una strada per intuito. C’è un podi gente nel cortile di una casa, chiediamo informazioni e ci ritroviamo invitate al pranzo di Ferragosto di nonna Jolanda, figli, nipoti, colleghi di lavoro. Parrucchieri, per la precisione. E noi che ogni giorno ci lamentiamo dei nostri tagli comodi ma ingestibili, un poci vergogniamo. Ma solo allinizio, poi è come stare in una grande famiglia. Ci vuole poco per volersi bene, ancora meno per amare nonna Jolanda, che ci prende in disparte e ci confessa di avere sentito una vocina che le diceva di invitarci a restare: A volte si sentono le vocine nella testa, succede anche a voi, vero? Solo che alcune sono buone, altre sono cattive. Ma credo che questa fosse buona. Mangiamo, suoniamo e cantiamo insieme, ridiamo tanto e quando ci salutiamo non c’è sasso che tenga. Il nostro cuore è pieno come le pance e gli zaini - due pacchi di taralli, bottiglie di the, limmancabile birra Forst (sponsor del Molise), Gippa! Cuore dacciaio nella testa, un libro con i proverbi campobassani/varesotti e la loro traduzione che ci regalerà risate convulse, la speranza di rivederci presto -. Siamo tanto diversi nei modi di pensare e di fare, ma è stata proprio questa diversità a dare valore al nostro incontro. Noi ringraziamo tutti, ma sono loro - Antonio in particolare -­ entusiasti della nostra presenza improvvisata. I saluti si prolungano e si fanno più difficili ma questi ragazzi sanno come sdrammatizzare. Arrivano Francesca e Leo, stanotte dormiremo da loro. Ci lasciano le chiavi e tornano in campagna con la famiglia. La casa è a nostra completa disposizione: chi lo farebbe a Torino?


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Tappa Cinque - da Sepino a San Giuliano del Sannio


14 agosto 2015 

Sepino è un paese che va visto mentre si sveglia, così pulito e ingarbugliato. Salutiamo la piazza, i vicoli e scendiamo verso Altilia, ancora più immobile alle otto del mattino. Passeggiamo tra le rovine come se fosse casa nostra, ce le siamo conquistate. Alle nove abbiamo appuntamento con Giuseppe "Peppino", che ci guiderà fino a San Giuliano. Ha una bella faccia sannita, con la barba folta. 

Il primo pezzo è ancora tratturo, poi prendiamo il sentiero 501, da lui stesso pulito, segnato, curato. Subito la strada si riempie: Peppino ha un fuoco dentro, una passione sfrenata per questa terra e non per Napoli, dov'è nato. Un amore così forte che è disposto all'odio quando incontra l'uomo nel suo trascurare e aspettare che le cose cambino da sé. Il Sannita è ordinato, si prende cura della propria terra, la rispetta anche se quella stessa terra lo mette a dura prova con la sua indomabile asprezza. Ci racconta dei lupi, degli alberi secolari che ci guardano e trattengono la storia, ci parla della Storia di questa regione e dei suoi abitanti. Peppino osserva, assentandosi, gli uomini: non ce lo dice, ma ce ne accorgiamo dal modo in cui si guarda attorno. Questo camminare insieme diventa anche un pretesto per ragionare su un Molise che non c'è, nascosto nei tratturi e nelle abitudini quotidiane, schiette, della gente di paese, contrapposto al Molise che c'è, quello istituzionale, burocratico, distante dalla vita reale delle persone che lo abitano.


Alle porte di San Giuliano il Molise che c'è ha rimesso a nuovo un'antica fonte, alla quale ci rinfreschiamo prima di affrontare l'ultima salita, la più ripida. Quarantacinque gradi quasi d'un fiato, poi le prime case: due signore salutano con un accento francofono la nostra guida, che per loro non è altro che "il marito di". Il Molise che non c'è. Veniamo accolte in piazza a suon di organetto: le inconfondibili note di Piemontesina bella non ci fanno certo sentire a casa. Siamo grate e imbarazzate da questa accoglienza: una visita a San Nicola nella chiesa del paese e quando usciamo alcune signore hanno improvvisato un rinfresco per noi. Aranciata e pezzi di torta salata su un piatto di plastica. Le signore si accorgono che il tavolino è un po' ammaccato e il loro imbarazzo, quello sì, ci fa sentire a casa. 

La visita al municipio e ai pezzi di storia che lo reggono ci fanno pensare al Molise che c'è. Mentre ci allontaniamo dal paese ci domandiamo se anche noi abbiamo una dedizione così risoluta per qualcosa allo stesso tempo insignificante per il mondo e fondamentale per le proprie origini. E quanto questo sia necessario per comprendere a fondo la nostra identità. Forse i Sanniti ci sembrano così integri proprio perché dei dettagli della storia hanno fatto tesoro, li rispettano, li stimano.


Siamo ospiti di Francesco e Rosaria, una piccola oasi di pace tutta bosco e cavalli alle porte del paese. Qualche anno fa hanno deciso di seguire un sogno che ancora non conoscevano, forse il sogno di qualcun altro. Oggi quel sogno è anche il loro, lo vediamo anzi no. Lo percepiamo da quelle piccole attenzioni, sguardi, parole dette piano che sono difficili da descrivere ma che hanno reso questa giornata una ricetta da non dire, della quale possiamo enumerare gli ingredienti ma sapendo che il segreto sta nella preparazione, nel soppesare le dosi esatte, nellaspettare il tempo giusto, il silenzio, lattimo. 
una casetta nel bosco e un intreccio di ricordi
un pranzo indimenticabile
la miglior Tintilia
un amore così profondo da brillare in superficie 
la tranquillità del riposo 
i nostri trainer
prendersi cura dei cavalli, prima e dopo
lamaca
una festa di famiglia
le stelle
le cover country
le parole accorte e spigolose di Francesco 
parlare come amici
i preparativi di Ferragosto (senza ansia)
Mao (non il dittatore, il cane)
lombra dei pini
lincontro con uno dei nostri angeli custodi, Mauro 
le indicazioni di Mauro che dimentichiamo subito

Oggi essere grate è poco.

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