Tappa Tredici - da Montefalcone nel Sannio a Palata


24 agosto 2015 

L’alba tinge Montefalcone delle tonalità dei frutti maturi. Camminando per le vie del centro scopriamo il volto muto e assonnato del paese, rotto dall’abbaiare di alcuni cani in lontananza -­ forse Pis III ha seguito il Nigga al villaggio Shalom -­ ci diciamo per rincuorarci. Nella piazza, un unico bar aperto il lunedì: non ha ancora i cornetti, ma ci mette il cacao nel caffè. Ci raggiunge Gigino, per salutarci e augurarci buon viaggio. “Dovevi dormire!”, gli diciamo in coro. 
Diciamo molte cose in coro. Pensiamo le stesse cose nello stesso momento. Camminare insieme, forse, accorda i bisogni, crea sintonia. Anche se ventiquattr’ore su ventiquattro sono tante, sono tutte, entrambe sappiamo che con un’altra persona non sarebbe stato possibile. Siamo fatte per viaggiare e -­ perché no -­ per viaggiare insieme. Come Giulia e Mario, calabrobelgargentini che ci raggiungono a passo spedito durante la loro marcia quotidiana. Giulia ha occhi verdi e capelli rossi, Mario mandorle scure e poche parole ben piazzate. Si sono innamorati di queste montagne e, appena possono, le vengono a trovare, per mantenerne l’immagine salvifica davanti agli occhi e sopportare così le uggiose giornate belga. È uno splendido incontro per tutti, gli occhi ci brillano. Condividere con uno sguardo le sensazioni del camminare un luogo. Capirsi. Sapere. Giulia è amareggiata perché, nonostante i suoi ripetuti tentativi di coinvolgere gli altri abitanti del paese ad assaporare con i piedi la propria terra, questa sua scintilla non accende fuochi. 
Ci separiamo a un bivio, noi proseguiamo in cerca del tratturo. Lo percorriamo per un breve tratto, il resto è sole e asfalto. Un signore ci propone di cogliere le sue prugne dall’albero, poi si rivolge a un collega: “Chiste so’ buone, vann’a pèdi”.
Acquaviva Collecroce dà a entrambe la medesima impressione: decadenza, inquietudine. Forse è solo perché non ci addentriamo nel paese, ma ci fermiamo al primo bar sulla strada: la colazione è sacra e senza cornetti non è colazione. Quando posiamo gli zaini, il sollievo è preceduto dal dolore ancora più acuto: il loro peso inizia a insistere troppo sugli stessi punti. Ci rilassiamo un attimo prima di ripartire sotto il sole cocente. Il barista ci fa portare un sacchetto con quattro panini al salame più uno vuoto, con una scatoletta di tonno: “mica siete vegetariane?”. Qui non si può simpatizzare troppo per gli animali, come vorrebbe Giulia. Ci lascia anche tre bottigliette d’acqua. Si merita un sasso.

Uscite dal paese, chiamiamo Erik: non ne possiamo più dell’asfalto. Erik è un biker con la passione per lo sterrato e l’ambiente, le alternative che preferiamo. Ci indica il tratturo e, una ventina di minuti più tardi, ci raggiunge alla chiesa di Santa Giusta. Anche lui con acqua e frutta che trova per strada. Ci fermiamo addossati alla parete e il tempo trascorre tranquillo tra susine, racconti e un vento di informazioni che ci sciacqua il viso. Ci raggiunge poco dopo Gialluca -­ in macchina -­ con altra frutta e il caffè. Ora il problema è ripartire a mezzogiorno e mezza, doloranti e decompresse. Sono solo tre chilometri, ma arriviamo stremate. Mentre camminiamo, sogniamo di fermarci in un posto all’ombra con vista mare. E così è. 


Palata è un paese­gioiello, lo scopriamo con una guida d’eccezione: il vigile Maurizio. Lui sa tutto della sua storia e dei tratturi e ci accompagna in una visita del centro davvero interessante. Entriamo nel centro storico passando attraverso un vicolo strettissimo, quasi tocchiamo con le spalle, che si apre su una serie di case in pietra dove “ogni porta era una famiglia” e le porte sono arrampicate una sull’altra. I tentativi di ristrutturare il cuore del paesino si sono esauriti presto e quello che rimane non sono che tracce dell’antico splendore di Palata: il palazzo ducale, la neviera, gli stemmi sparsi nei cornicioni delle case ­, impossibili da trovare senza guardare negli occhi tristi di Maurizio. 
Entriamo in chiesa per chiedere ospitalità. Aspettiamo una buona mezz’ora, sentendo delle voci provenire dalla sagrestia. Un signore sta allestendo in silenzio la chiesa per le preghiere della sera, con una dedizione umile e amorevole. Ci fa qualche domanda, partecipa del nostro “pellegrinaggio” con comprensione e i suoi occhi si illuminano mentre ci racconta che da quando è andato a Medjugorje non c’è mare o montagna che tenga: lì si rigenera. Poi, preoccupato, si propone di intercedere per noi con il sacerdote, il quale lo licenzia veloce, “non c’è posto” e attraversa la navata centrale senza nemmeno riuscire a guardarci. Restiamo attonite davanti a questo buon signore, che non si perde d’animo e inizia a chiedere aiuto alle prime donne che entrano per le preghiere. Queste sembrano tutte affannarsi per la nostra causa, solo che loro non hanno né lo spazio né il numero del sindaco. Il signore buono è in affanno, ci chiede di aspettare, che tra poco ci sarà più gente e di sicuro qualcuno avrà posto, noi rispondiamo commosse che apprezziamo ma non vogliamo insistere, abbiamo una tenda. Torniamo al bar con il sorriso di chi ha la soluzione nello zaino. Ma anche stasera resterà chiusa sulle nostre spalle: Maurizio ci accompagna infatti a casa di Maria, donna dal cuore grande e la vita difficile. Vive con il figlio Federico, fa prima media ma è più grande della sua età, sa tenere le mucche e addestrare i cani da tartufo. Con loro c’è anche zio Antonio, presenza silenziosa che traccia una diagonale tra la sua sedia e il televisore acceso. Non parla con noi ma solo con Freccia, il loro cane di cinque mesi. Maria ci accoglie scusandosi, non sapeva del nostro arrivo, ma siamo noi a volerci scusare per aver invaso così repentinamente la sua quotidianità, per non avere nulla da offrire in cambio, per essere lì senza riuscire a spiccicare una parola dall’imbarazzo. Cerca in tutti i modi di farci sentire a nostro agio, offrendoci un gelato mentre lei lava i pavimenti, pulisce, mette in ordine come può. 
L’arancione c’è eccome, solo che è nascosto tra le cataste di vestiti.

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