Tappa Quattordici - da Palata a Montenero di Bisaccia


25 agosto 2015 

Lasciare Palata non è stato così semplice, stamattina.
Ci svegliamo che Maria e Federico dormono ancora, dalla cucina il silenzio di zio Antonio lascia spazio ai programmi mattutini del digitale terrestre: è il suo modo per fare sapere a tutti che è tornato. Salutiamo accorciando la modalità “circostanza”, ma non sempre è possibile. Alcuni di noi umani ne hanno proprio bisogno, come per essere certi di sapere stare al mondo. E poi Maria ci ha spalancato la porta quando tutti gli altri ce l’hanno chiusa in faccia. 
Svolgiamo i nostri riti venerativi al bar di ieri, ormai casa, dove ci raggiunge Gialluca e ci offre la seconda colazione, la nostra preferita. Ci ha portato anche il pranzo e non posso non pensare che sono questi gli incontri che danno senso al cammino, quelli per caso, dove lo scambio è lieve, ancora meno di una carezza. Ci siamo visti solo per dieci minuti e oggi tu e quegli occhi verdi siete qua, per noi. E sono solo le sei e mezza del mattino. E potevi dormire, dimenticarti, tardare. Invece sei qua.
Ci allontaniamo dispiaciute di non aver salutato Valeria e con le indicazioni della strada scritte su un biglietto del treno. Discesa, destra e poi tenere la sinistra, due fontane. Le abbiamo chiare, ma forse non basta e ci ritroviamo a schivare rovi e ad attraversare campi di girasoli. Mi lamento quando è così ma non posso non pensare che siano quelle le strade belle. Torniamo sull’asfalto che irrigidisce le ginocchia, siamo senza un goccio d’acqua e il caldo adriatico riempie l’aria e ci fa sudare le pupille. Ci fermiamo in una casa dove un uomo sta lavorando solo. Roberto si spaventa un po’ quando lo chiamiamo ma subito dopo ci offre tutto quello che ha. Prendiamo solo l’acqua, grazie, e ci avviamo con Radio Tratturo a tutto volume. Coi giorni ci siamo accorte che quello è l’unico modo per fare risalire l’umore quando la schiena punge e il prossimo paese non si vede.


Da lontano Montenero di Bisaccia sembra più grande e ripido degli altri, lo battezziamo scegliendo la strada più corta e quindi più scoscesa. Ma non è finita: i viottoli di Montenero sono ferrate d’asfalto e oggi siamo due sherpa sull’Annapurna. Ci scherziamo su, come ogni volta quando la stanchezza viene a bussare. Funziona. Ci diciamo che il paese ci piace e raggiungiamo la chiesa, punto più alto. Chiediamo per la piazza e ci ritroviamo nel “centro di Rimini”; ci eravamo dimenticate che faccia avesse il nostro mondo, quello senza pietre, coi bar rumorosi dove un buongiorno desta per prima cosa sospetto, dove non c’è tempo.
Per un paio d’ore testiamo le panchine intorno alla fontana, sfuggiamo la linea che il sole disegna come si fa da bimbi con la marea, sulla battigia. Marcello si libera nel tardo pomeriggio, siamo sue ospiti stanotte, nel centro di accoglienza dove lavora. Ci raggiunge però Simona e ci svela che il posto si trova proprio vicino a Petacciato, prossima tappa, così accettiamo la sua offerta di fermarci a Montenero: al mare dobbiamo arrivarci coi piedi. Al centro però andiamo per cena dove Marcello, Vita, Fabio, Giulia, Federico e Alì ci hanno preparato gli arrosticini alla brace e la nostra prima insalata molisana, evento da ricordare. Presto però dobbiamo salutarli: ogni sera arriva un momento in cui veniamo risucchiate dal silenzio della stanchezza. Un silenzio pieno di tutti i paesaggi che attraversiamo, dove ci assentiamo perché di spazio, dentro, non ne abbiamo più.
Forse per questo gli anziani parlano poco, penso. Forse hanno visto così tante cose che gli mancano i vuoti, quando arriva la sera. Poi però ci addormentiamo. 

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