Stamattina iniziamo a ridere presto, non c’è posto per la stanchezza, oggi: dieci, tredici chilometri e poi mare sia. Apparteniamo a quella fetta di popolazione che ne sente la tenace attrazione, la saudade, ma che al tempo stesso non ha il coraggio di rispondere e abitarlo. Non ancora, perlomeno. Ma quando il mare c’è, bisogna celebrarlo.
In questi ultimi giorni il paesaggio è cambiato molto. Abbiamo abbandonato gli abeti bianchi e ora colline giallo oro che ci mangiamo a passi piccoli e svelti. Facciamo una breve sosta a Petacciato e, proprio mentre la lasciamo per dirigerci verso la sua omonima marina, ci rendiamo conto che tutte le bellezze di questo territorio non corrispondono al nostro concetto di “bello”. E quelle due case arroccate su se stesse, quelle facce uguali a tante, quei paesini semidesertici che ci hanno tanto impressionato, ora ci mancano.
Ci affidiamo a un sentierino non asfaltato costeggiato da rifiuti, Est è la direzione, sempre dritto, non ci si può sbagliare. Passiamo l’autostrada e la zona degli appartamenti turistici, la spiaggia.
Maria ci fa poggiare gli zaini al CEA, centro di educazione ambientale, una deliziosa struttura in legno tra le dune: velocizziamo i tempi, una corsa e siamo in acqua. Il primo bagno della stagione lo si pregusta, lo si aspetta e lo si gode, ognuno a modo proprio, con religiosa devozione. Il primo bagno dopo duecento chilometri di cammino è un’arresa alla tavola blu, al suo essere immensa, eterna, pace. Il CEA ha una terrazza dove tira sempre vento. Pranziamo coi capelli ancora bagnati, frutta e focaccia. È un pomeriggio senza tempi né doveri, un pomeriggio in cui ci premiamo per la strada fatta, premiamo i nostri piedi, le nostre spalle. Verso sera ci raggiunge Gilda, che abita a pochi passi da lì. È una ragazza di liquirizia, dolce e piena di energia, di quelle che ti cambia il mondo con il sorriso. Si aggiunge a noi anche Sara, responsabile del centro, che ci sfama e ci trascina lontano col suo entusiasmo e la sua passione per la sua terra, per il suo lavoro. Sara ride e con lei ogni virgola del suo corpo. Mi chiedo se sia la passione sfrenata verso qualcosa a renderti così, appassionata e libera. Perché è quello che lei è: una persona libera. Passiamo una serata “tra amiche” e si insinua in noi la sensazione che le persone belle non siano finite. Verso i trent’anni uno se lo pone questo dubbio, è lecito, ma stasera queste due ragazze ci hanno restituito un po’ di fiducia nel genere umano. Ci addormentiamo sotto le stelle e questo è l’ultimo pensiero della giornata.
Lasciare Palata non è stato così semplice, stamattina.
Ci svegliamo che Maria e Federico dormono ancora, dalla cucina il silenzio di zio Antonio lascia spazio ai programmi mattutini del digitale terrestre: è il suo modo per fare sapere a tutti che è tornato. Salutiamo accorciando la modalità “circostanza”, ma non sempre è possibile. Alcuni di noi umani ne hanno proprio bisogno, come per essere certi di sapere stare al mondo. E poi Maria ci ha spalancato la porta quando tutti gli altri ce l’hanno chiusa in faccia.
Svolgiamo i nostri riti venerativi al bar di ieri, ormai casa, dove ci raggiunge Gialluca e ci offre la seconda colazione, la nostra preferita. Ci ha portato anche il pranzo e non posso non pensare che sono questi gli incontri che danno senso al cammino, quelli per caso, dove lo scambio è lieve, ancora meno di una carezza. Ci siamo visti solo per dieci minuti e oggi tu e quegli occhi verdi siete qua, per noi. E sono solo le sei e mezza del mattino. E potevi dormire, dimenticarti, tardare. Invece sei qua.
Ci allontaniamo dispiaciute di non aver salutato Valeria e con le indicazioni della strada scritte su un biglietto del treno. Discesa, destra e poi tenere la sinistra, due fontane. Le abbiamo chiare, ma forse non basta e ci ritroviamo a schivare rovi e ad attraversare campi di girasoli. Mi lamento quando è così ma non posso non pensare che siano quelle le strade belle. Torniamo sull’asfalto che irrigidisce le ginocchia, siamo senza un goccio d’acqua e il caldo adriatico riempie l’aria e ci fa sudare le pupille. Ci fermiamo in una casa dove un uomo sta lavorando solo. Roberto si spaventa un po’ quando lo chiamiamo ma subito dopo ci offre tutto quello che ha. Prendiamo solo l’acqua, grazie, e ci avviamo con Radio Tratturo a tutto volume. Coi giorni ci siamo accorte che quello è l’unico modo per fare risalire l’umore quando la schiena punge e il prossimo paese non si vede.
Da lontano Montenero di Bisaccia sembra più grande e ripido degli altri, lo battezziamo scegliendo la strada più corta e quindi più scoscesa. Ma non è finita: i viottoli di Montenero sono ferrate d’asfalto e oggi siamo due sherpa sull’Annapurna. Ci scherziamo su, come ogni volta quando la stanchezza viene a bussare. Funziona. Ci diciamo che il paese ci piace e raggiungiamo la chiesa, punto più alto. Chiediamo per la piazza e ci ritroviamo nel “centro di Rimini”; ci eravamo dimenticate che faccia avesse il nostro mondo, quello senza pietre, coi bar rumorosi dove un buongiorno desta per prima cosa sospetto, dove non c’è tempo.
Per un paio d’ore testiamo le panchine intorno alla fontana, sfuggiamo la linea che il sole disegna come si fa da bimbi con la marea, sulla battigia. Marcello si libera nel tardo pomeriggio, siamo sue ospiti stanotte, nel centro di accoglienza dove lavora. Ci raggiunge però Simona e ci svela che il posto si trova proprio vicino a Petacciato, prossima tappa, così accettiamo la sua offerta di fermarci a Montenero: al mare dobbiamo arrivarci coi piedi. Al centro però andiamo per cena dove Marcello, Vita, Fabio, Giulia, Federico e Alì ci hanno preparato gli arrosticini alla brace e la nostra prima insalata molisana, evento da ricordare. Presto però dobbiamo salutarli: ogni sera arriva un momento in cui veniamo risucchiate dal silenzio della stanchezza. Un silenzio pieno di tutti i paesaggi che attraversiamo, dove ci assentiamo perché di spazio, dentro, non ne abbiamo più.
Forse per questo gli anziani parlano poco, penso. Forse hanno visto così tante cose che gli mancano i vuoti, quando arriva la sera. Poi però ci addormentiamo.
L’alba tinge Montefalcone delle tonalità dei frutti maturi. Camminando per le vie del centro scopriamo il volto muto e assonnato del paese, rotto dall’abbaiare di alcuni cani in lontananza - forse Pis III ha seguito il Nigga al villaggio Shalom - ci diciamo per rincuorarci. Nella piazza, un unico bar aperto il lunedì: non ha ancora i cornetti, ma ci mette il cacao nel caffè. Ci raggiunge Gigino, per salutarci e augurarci buon viaggio. “Dovevi dormire!”, gli diciamo in coro.
Diciamo molte cose in coro. Pensiamo le stesse cose nello stesso momento. Camminare insieme, forse, accorda i bisogni, crea sintonia. Anche se ventiquattr’ore su ventiquattro sono tante, sono tutte, entrambe sappiamo che con un’altra persona non sarebbe stato possibile. Siamo fatte per viaggiare e - perché no - per viaggiare insieme. Come Giulia e Mario, calabrobelgargentini che ci raggiungono a passo spedito durante la loro marcia quotidiana. Giulia ha occhi verdi e capelli rossi, Mario mandorle scure e poche parole ben piazzate. Si sono innamorati di queste montagne e, appena possono, le vengono a trovare, per mantenerne l’immagine salvifica davanti agli occhi e sopportare così le uggiose giornate belga. È uno splendido incontro per tutti, gli occhi ci brillano. Condividere con uno sguardo le sensazioni del camminare un luogo. Capirsi. Sapere. Giulia è amareggiata perché, nonostante i suoi ripetuti tentativi di coinvolgere gli altri abitanti del paese ad assaporare con i piedi la propria terra, questa sua scintilla non accende fuochi.
Ci separiamo a un bivio, noi proseguiamo in cerca del tratturo. Lo percorriamo per un breve tratto, il resto è sole e asfalto. Un signore ci propone di cogliere le sue prugne dall’albero, poi si rivolge a un collega: “Chiste so’ buone, vann’a pèdi”.
Acquaviva Collecroce dà a entrambe la medesima impressione: decadenza, inquietudine. Forse è solo perché non ci addentriamo nel paese, ma ci fermiamo al primo bar sulla strada: la colazione è sacra e senza cornetti non è colazione. Quando posiamo gli zaini, il sollievo è preceduto dal dolore ancora più acuto: il loro peso inizia a insistere troppo sugli stessi punti. Ci rilassiamo un attimo prima di ripartire sotto il sole cocente. Il barista ci fa portare un sacchetto con quattro panini al salame più uno vuoto, con una scatoletta di tonno: “mica siete vegetariane?”. Qui non si può simpatizzare troppo per gli animali, come vorrebbe Giulia. Ci lascia anche tre bottigliette d’acqua. Si merita un sasso.
Uscite dal paese, chiamiamo Erik: non ne possiamo più dell’asfalto. Erik è un biker con la passione per lo sterrato e l’ambiente, le alternative che preferiamo. Ci indica il tratturo e, una ventina di minuti più tardi, ci raggiunge alla chiesa di Santa Giusta. Anche lui con acqua e frutta che trova per strada. Ci fermiamo addossati alla parete e il tempo trascorre tranquillo tra susine, racconti e un vento di informazioni che ci sciacqua il viso. Ci raggiunge poco dopo Gialluca - in macchina - con altra frutta e il caffè. Ora il problema è ripartire a mezzogiorno e mezza, doloranti e decompresse. Sono solo tre chilometri, ma arriviamo stremate. Mentre camminiamo, sogniamo di fermarci in un posto all’ombra con vista mare. E così è.
Palata è un paesegioiello, lo scopriamo con una guida d’eccezione: il vigile Maurizio. Lui sa tutto della sua storia e dei tratturi e ci accompagna in una visita del centro davvero interessante. Entriamo nel centro storico passando attraverso un vicolo strettissimo, quasi tocchiamo con le spalle, che si apre su una serie di case in pietra dove “ogni porta era una famiglia” e le porte sono arrampicate una sull’altra. I tentativi di ristrutturare il cuore del paesino si sono esauriti presto e quello che rimane non sono che tracce dell’antico splendore di Palata: il palazzo ducale, la neviera, gli stemmi sparsi nei cornicioni delle case , impossibili da trovare senza guardare negli occhi tristi di Maurizio.
Entriamo in chiesa per chiedere ospitalità. Aspettiamo una buona mezz’ora, sentendo delle voci provenire dalla sagrestia. Un signore sta allestendo in silenzio la chiesa per le preghiere della sera, con una dedizione umile e amorevole. Ci fa qualche domanda, partecipa del nostro “pellegrinaggio” con comprensione e i suoi occhi si illuminano mentre ci racconta che da quando è andato a Medjugorje non c’è mare o montagna che tenga: lì si rigenera. Poi, preoccupato, si propone di intercedere per noi con il sacerdote, il quale lo licenzia veloce, “non c’è posto” e attraversa la navata centrale senza nemmeno riuscire a guardarci. Restiamo attonite davanti a questo buon signore, che non si perde d’animo e inizia a chiedere aiuto alle prime donne che entrano per le preghiere. Queste sembrano tutte affannarsi per la nostra causa, solo che loro non hanno né lo spazio né il numero del sindaco. Il signore buono è in affanno, ci chiede di aspettare, che tra poco ci sarà più gente e di sicuro qualcuno avrà posto, noi rispondiamo commosse che apprezziamo ma non vogliamo insistere, abbiamo una tenda. Torniamo al bar con il sorriso di chi ha la soluzione nello zaino. Ma anche stasera resterà chiusa sulle nostre spalle: Maurizio ci accompagna infatti a casa di Maria, donna dal cuore grande e la vita difficile. Vive con il figlio Federico, fa prima media ma è più grande della sua età, sa tenere le mucche e addestrare i cani da tartufo. Con loro c’è anche zio Antonio, presenza silenziosa che traccia una diagonale tra la sua sedia e il televisore acceso. Non parla con noi ma solo con Freccia, il loro cane di cinque mesi. Maria ci accoglie scusandosi, non sapeva del nostro arrivo, ma siamo noi a volerci scusare per aver invaso così repentinamente la sua quotidianità, per non avere nulla da offrire in cambio, per essere lì senza riuscire a spiccicare una parola dall’imbarazzo. Cerca in tutti i modi di farci sentire a nostro agio, offrendoci un gelato mentre lei lava i pavimenti, pulisce, mette in ordine come può.
L’arancione c’è eccome, solo che è nascosto tra le cataste di vestiti.
Il primo tratto è una discesa asfaltata, le due cose che odiamo di più, ma c’è Ester con noi. E Santina ci ha preparato la cioccolata calda per colazione e, nello zaino, succo al mirtillo e panini molisani DOC. È una sensazione piacevole quella di non doversi curare della strada, qualche volta, anche se ciò non ci mette al riparo dalla routine quotidiana e, per qualche minuto, sconfiniamo in Abruzzo. Ma poi torniamo volentieri sui nostri passi.
Il percorso è un po’ noioso, è bello essere in tre. Ester si racconta, si parla di sport, di esperienze che ti segnano, di come le paure si possano superare con semplicità e istinto. Siamo in sintonia sull’idea di una vita in movimento e di quanto questo sia salvezza dalla quotidianità.
Arriviamo al santuario della Madonna di Canneto durante la messa. È un buon posto dove tirare fiato; ci ristoriamo insieme a Pis III, nuovo compagno di strada a quattro zampe, il più stremato di tutti che si addormenta all’ombra. Il tempo passa veloce e, quando guardiamo l’orologio, è il momento di andare.
Torniamo sulla statale e qui salutiamo la nostra compagna di strada, ma è una di quelle facce che siamo sicure di rincontrare, nessuna tristezza. Prendiamo il sentiero, una salita che ci asciuga le parole in bocca, tra gli ulivi. Quelli sono i momenti del male minore in cui non si sentono più le vesciche pulsare sotto i piedi, la schiena rotta, il caldo, ma c’è solo la strada. E ci sei tu.
Si unisce alla carovana anche Nigga, un bastardino che reppa in cagnesco; insieme a lui, un senso di responsabilità nei confronti di questi piccoletti che ci aspettano agli incroci e si voltano a guardarci quando non ci vedono arrivare, come figli quando mamma e papà si fanno stanchi e curvi. E succede lo stesso quando, arrivati al paese, saliamo in macchina di Gigino che ci ospita per il pranzo: li salutiamo con gli occhi senza avere il tempo di accorgerci che le nostre strade si dividono qui. È domenica, ci aspetta un buon pranzo, in famiglia. Ed è proprio così che ci sentiamo in questa regione d’adozione che non smette di darci meraviglia. Parliamo anche di questo con Gigino, uno di quegli uomini che hanno a cuore la cosa pubblica, uno di quelli che ancora spera. Poi saliamo in centro, dove si sta svolgendo la ruzzola, gara di lancio di formaggi di capra, lungo le vie del borghetto. “È dal 1985 che non si faceva”, ci raccontano e noi ne siamo ammaliate: ci sembra di essere in un altro luogo e in un altro tempo o forse in un luogo dove il tempo si è fermato e basta davvero poco per divertirsi e stare insieme.
Ci spingiamo fin sopra alla montagna, alle spalle del paese, passando per la pineta. Per la prima volta vediamo il mare. E, per la prima volta dall’inizio di questo viaggio, conosciamo la meta, ma è una sensazione d’ogni giorno, come quando si riguarda Forrest Gump e si aspetta con trepidazione che lui smetta di correre.
Ora abbiamo una missione, una direzione chiara. Ci sentiamo un po’ meno vagabonde e un po’ più vedette. Dopo aver raccontato qualcosa di noi a Montefalcone che ci ascolta con quello stupore che ormai distinguiamo chiaro, ce ne andiamo a dormire perché ora il mare è un posto dove arrivare.