20 agosto 2015
Bagnoli. Paese di tassisti e zanzare tigre.
Questa mattina il buon Vito ci ha offerto la colazione e ci ha accompagnate per un pezzo lungo il tratturo e sul sentiero, prima di tornare a Civitanova in tempo per la messa in ricordo di sua mamma, morta oggi tre anni fa. Vito non parla molto, ma le sue parole sono soffici, come il suo modo di affrontare la vita. Non sappiamo se ci rivedremo, ma incontrarlo ci ha lasciato in eredità il desiderio di proteggere questo modo di vivere di cui si sente la nostalgia solo quando lo ritrovi in qualcuno. Quando torna sui suoi passi, noi camminiamo nel fango di una frana riparata da poco. Ci stupiamo della velocità dei nostri passi e alle dieci siamo già a Bagnoli. Entriamo in paese salutando le persone che incontriamo. Non ci (ri)conosce nessuno, solo una ragazza esprime la sua stima con un pollice alzato. Si respira una strana aria, qui. Sembra un quartiere di Roma trasferitosi in Molise: c’è baccano, c’è confusione. Si avvicina a noi Giuseppe, ha una gamba ingessata e con un gran sorriso ci indica un ragazzo del posto a cui chiedere informazioni: “lui vive qui anche d’inverno, sicuramente vi potrà aiutare”. La maggior parte della gente che c’è in giro, invece, è venuta qui in vacanza. In taxi. Il proprio taxi.
Partecipiamo anche noi della confusione di questa piazza, ma in un modo diverso. Non sappiamo bene cosa fare, ci lasciamo invadere dalle sensazioni accovacciate su una panchina. Sono tutti in fermento, questi sono giorni di festa. Decidiamo di rivolgerci al parroco che sta celebrando messa. Allora attendiamo, mentre la gente si accalca riempiendo la chiesa e persino una stanza sotterranea, forse costruita apposta per l’afflusso estivo di fedeli. È un’ospitalità incredula quella che riceviamo, il parroco un po’ imbarazzato si offre persino di pagarci il pranzo, ma a noi basta un tetto. Nella casa del pellegrino abitano per dieci giorni anche Claudio e Alessandro, di ventuno e sedici anni, che vendono le noccioline in piazza in queste sere d’estate. Sono persone che si adattano, loro, e che sanno trasformare ogni luogo in casa, perché le tende del loro negozio ambulante sono arancioni. È una situazione surreale, tra statue di santi accatastate, una sala da pranzo con playstation e carte per giocare insieme, una cucina dal gas singhiozzante con il quale ci preparano un pranzo da due in cui mangiamo in quattro. È un’ospitalità concreta e senza fronzoli, la loro. Un’ospitalità sincera e spiazzante. Claudio dà ordini e Alessandro esegue senza esitare, senza fiatare. Ci guarda con gli occhi grandi e basiti, mentre raccontiamo di questo viaggio che lascia i nostri fidanzati a casa, anche quando di fidanzati non ce ne sono, se non nelle parole che escono spontanee per difesa. Perché la vita ci ha riservato esperienze diverse, perché anche noi ci adattiamo, ma dopo aver incontrato tante persone che, incredule, continuano a chiederci - e a chiedersi - se non abbiamo paura, forse alla fine un po’ di paura l’hanno insinuata e un po’ di distanza la prendiamo. Giusto quella che serve per trovare un nuovo punto di incontro e condivisione.
Partecipiamo anche noi della confusione di questa piazza, ma in un modo diverso. Non sappiamo bene cosa fare, ci lasciamo invadere dalle sensazioni accovacciate su una panchina. Sono tutti in fermento, questi sono giorni di festa. Decidiamo di rivolgerci al parroco che sta celebrando messa. Allora attendiamo, mentre la gente si accalca riempiendo la chiesa e persino una stanza sotterranea, forse costruita apposta per l’afflusso estivo di fedeli. È un’ospitalità incredula quella che riceviamo, il parroco un po’ imbarazzato si offre persino di pagarci il pranzo, ma a noi basta un tetto. Nella casa del pellegrino abitano per dieci giorni anche Claudio e Alessandro, di ventuno e sedici anni, che vendono le noccioline in piazza in queste sere d’estate. Sono persone che si adattano, loro, e che sanno trasformare ogni luogo in casa, perché le tende del loro negozio ambulante sono arancioni. È una situazione surreale, tra statue di santi accatastate, una sala da pranzo con playstation e carte per giocare insieme, una cucina dal gas singhiozzante con il quale ci preparano un pranzo da due in cui mangiamo in quattro. È un’ospitalità concreta e senza fronzoli, la loro. Un’ospitalità sincera e spiazzante. Claudio dà ordini e Alessandro esegue senza esitare, senza fiatare. Ci guarda con gli occhi grandi e basiti, mentre raccontiamo di questo viaggio che lascia i nostri fidanzati a casa, anche quando di fidanzati non ce ne sono, se non nelle parole che escono spontanee per difesa. Perché la vita ci ha riservato esperienze diverse, perché anche noi ci adattiamo, ma dopo aver incontrato tante persone che, incredule, continuano a chiederci - e a chiedersi - se non abbiamo paura, forse alla fine un po’ di paura l’hanno insinuata e un po’ di distanza la prendiamo. Giusto quella che serve per trovare un nuovo punto di incontro e condivisione.
Facciamo un altro giro nel paese nella “terra di basso” e ci perdiamo in vicoli tortuosi che non portano da nessuna parte. Risaliamo in piazza costeggiando la roccia viva che separa e tiene insieme il paese e incrociamo una processione, dopo aver messo un biglietto d’amore per il Molise nella “bocca di Cupido”. In piazza, il profano in coda al sacro: si sta allestendo il palco per un concerto. Chiediamo informazioni per la cena a una signora verde e viola, un suo amico ci riconosce, sanno che stiamo facendo il giro del Molise a piedi, parliamo un po’. È un’ospitalità diversa, qui. Un’ospitalità che va ricercata, che va richiesta. È un incontro che deve partire da noi, dal nostro “sforzo”. Ma oggi abbiamo ricevuto quella dei nostri coinquilini ed è già un gran regalo.
Di Bagnoli del Trigno, città doppia, dirò solo poche cose. Si arrampica sulla roccia, l’una, mentre l’altra dei monti non vede che le spalle. Le campane si rincorrono sempre: quella di basc’ fa l’eco a quella in copp’ e nessuna delle due segna l’ora, ma la precedenza di una sull’altra. Quando viene agosto, i suoi abitanti si nascondono negli anfratti per lasciare posto ai tassì che riempiono le strade. Mettono di nuovo la testa fuori solo per le feste. Due sono le chiese, due i campanili, due i santi patroni, così che chi vi abita non sa più a chi appartiene: quando è felice, vorrebbe essere triste; quando è sveglio vorrebbe dormire; quando arriva qualcuno vorrebbe essere ospitale, ma l’altra parte della città non gli permette di essere né l’uno né il due, così rimane fermo dove si trova. E aspetta.