12 agosto 2015
Stamattina alle cinque gli olandesi erano già in piedi e anche Francesco si sveglia all'alba. Lo raggiungiamo nella "piazza grande". Ha gli occhi vispi ma la voce è ancora quella del sonno: ieri qualche birra e si sono fatte le quattro. Ma lui è lì ed è lì per noi.
Il tratto fino a Indiprete è breve, ma è la prima volta che camminiamo con qualcuno e dobbiamo prendere le misure. Alcuni sentieri sono fatti per andare soli, in due ci si sta comodi se si conoscono i confini, in tre occorre dare le precedenze, aspettarsi, parlare con la testa alta per farsi sentire da tutti. Scendiamo in silenzio per rispettare questa piccola marcia, perché è ancora molto presto ed è un'ora da ascoltare. Di tanto in tanto Francesco ci racconta qualcosa sulle contrade che da Castelpetroso scendono a valle e noi lo ascoltiamo con l'imbarazzo della gratitudine. Indiprete è una di queste, corre lungo il corso della sua sorgente ed è piena di fontane. Francesco ci accompagna fino al torrente, poi deve tornare in cima per recarsi a lavoro. Ci congediamo veloci, è il terzo giorno e non siamo ancora brave con i saluti.
Percorriamo un sentiero che costeggia la statale a destra, a sinistra il rumore del torrente vuole imporsi sull'asfalto. Noi lo assecondiamo, poi però la strada vince e del sentiero perdiamo la traccia. O forse è la fame che ci guida fino a un bar sulla statale che, una volta rinate, percorriamo per un'ora. Chiediamo informazioni a un contadino che tiene in braccio una gallina ma il traffico costante si mangia le parole e di lui ci rimangono solo i gesti e un forsennato sbattere d'ali.
Arrivate a Taverna incontriamo Paolo e Angela al birrificio. Paolo ci regala due bottiglie di Ianara: "in dialetto indica le streghe dei boschi e - non vi offendete - mi ha fatto pensare a voi". Angela ci rincorre con due mozzarelle perché non possiamo fermarci da lei. Siamo già ospiti del tratturo questa mattina, ci sta aspettando anche se si nasconde tra le case. Per un pezzo di strada veniamo accompagnate da un gruppo di bambini. Guido ha dieci anni, tiene le pecore dello zio "un giorno sì uno forse no", odia cantare a scuola, “vaffanculo - dice - a me piace il rap".
Prendiamo un sentiero nel bosco ancora pieno di fango dal giorno prima e, dopo un bel pezzo, ci ritroviamo in una radura senza uscita. Perse. Questa volta per davvero.
Calpestiamo cardi e fieno pungente percorrendo la radura in lungo e in largo, alla fine ci rassegniamo e ritorniamo sui nostri passi fino alla strada asfaltata. Fermiamo una macchina per sentirci dire che quella strada porta in realtà a Roccamandolfi, paese sicuramente stupendo ma da tutt'altra parte. L'uomo, un veterinario, si offre di accompagnarci all'ingresso del tratturo. Lui lo conosce perché d'estate dà l'antiparassitario alle greggi. Conosce anche tutte le storie dei Sanniti: ora sappiamo che Ponzio Pilato era molisano.
Attraversiamo il greto di sassi bianchi di un fiume e non siamo più perse. Forse i tratturi sono come le onde per i surfisti: bisogna imparare a conoscerli, a intuirli, a ritrovarli. Anche quando, in campagna come in mare, affiorano i rifiuti: un divano nel bosco, una catasta di vestiti, flaconi maleodoranti, un cartello che indica pericolo di amianto.
Ci fanno male i piedi, sogniamo di immergerli nell'acqua fresca. Però camminiamo gioiose e addirittura acceleriamo il passo quando vediamo Bojano avvicinarsi. Prendiamo una deviazione, una macchina si ferma:
"Voi siete quelle che camminano per il Molise? Potevate scegliere un altro nome... la regione che non c'è possiamo dirlo solo noi". Ci dispiace. Camminare qui è il nostro modo per cambiarne la percezione. Ci dispiace che non abbia capito, ma le siamo grate per averci indicato la strada giusta. L'altra.
Poco dopo ci raggiunge Alessia, che per prima cosa ci porta alle fonti del Biferno, dove beviamo e ci rinfreschiamo i piedi nell'acqua gelida: il sogno diventa realtà. Alessia inizia a raccontarsi e la sua determinazione nel voler cambiare le cose va di pari passo con l'amore che prova per la sua città. Arriviamo a casa e Gina, mamma accogliente, ha già messo in tavola spaghetti allo scoglio e sta friggendo le polpette. Qui siamo a casa, Gina ce lo dice ma noi lo avvertiamo già, anche se di arancione non ce n'è. Se ne accorge anche Sam, il loro cane che si addormenta con noi. “Caffè?” chiede Alessia dopo aver dormito sul divano per lasciarci la sua camera. Ci accompagna a Civita Superiore, il borgo antico che sovrasta Bojano; qui ci aspetta Luisa, una dei suoi quarantacinque abitanti che ora vive a Roma e a cui manca il suono delle sue campane. Alessia e Luisa non si conoscono, noi siamo il collante di relazioni possibili, ce ne accorgiamo proprio in quel momento. Del castello di Civita non rimane quasi niente ma Luisa ce lo racconta sorridendo, nella luce di un tramonto lunghissimo che ci accompagna tra le vie del paese. Passeggiamo tra le case di pietra, scambiandoci le vite, il nostro passaggio diventa un pretesto per ragionare insieme sulla grandezza di questo mondopaese, su come cambiarlo per farlo più bello. Delle ragazze ci colpisce l'attaccamento alla loro terra che noi non abbiamo. Si uniscono a noi Paolo e due turisti: siamo calamite e non lo sappiamo. Alessia deve andare a lavoro, sta mettendo via i soldi per stare un anno a Berna. Va per tornare. Va a cercare nuova energia per cambiare le cose a Bojano.
La madre di Luisa ha un accento buffo, a metà tra il tedesco e il molisano. Ci offre the alla menta e torta di mele nel suo delizioso B&B alle porte di Civita. Quando arrivano gli uomini di casa, noi donne scendiamo in paese sulla mitica 112 che qui tutti conoscono come i baffi del padre.
Le salutiamo tre o quattro volte, poi ci sediamo su una panchina a scrivere ma non troviamo le parole. Quando c'è troppo, succede. Chiacchieriamo con una coppia seduta a fianco a noi. È un dialogo surreale, è il dialogo di cui abbiamo bisogno: lei comprende ma non comunica, lui non comprende ma parla anche per lei. Li salutiamo con un po' di dispiacere e torniamo a casa. Mangiamo la mozzarella che ci ha dato Angela e beviamo la Ianara assieme a Gina, che si racconta. È una grande donna, di quelle che andavano ai concerti in autostop. Qualcosa di lei ci ipnotizza: abbiamo davanti una donna resiliente, una ianara che non si piega ma ride col cuore. Ci guardiamo e sappiamo che ripartire domani sarà molto difficile.